L’uso e la scelta delle parole non può essere lasciato al caso e spesso anche quelle che usiamo comunemente, in modo consapevole o meno, hanno un significato simbolico, etico e talvolta scientifico, che varrebbe la pena di indagare. Quando si parla di disabilità e di persone con limitazioni funzionali, spesso alcuni inciampano nelle parole e utilizzano termini che ritengono essere “politically correct”(politicamente corretto), magari commettendo delle ingenuità.
La riflessione di oggi vuole aprire un ragionamento sui termini che utilizziamo per indicare la disabilità, o meglio le persone con disabilità, pensando che dietro la scelta della definizione c’è un motivo.
Avendo recentemente letto da fonti della Commissione Europea che, in relazione all’invecchiamento della popolazione, si prevede che nel 2020 circa 120 milioni di persone nell’UE avranno una qualche forma di disabilità, forse vale la pena chiarire quali sono le terminologie universalmente riconosciute.
Tralasciando i termini più obsoleti vorrei focalizzare l’attenzione su quelli con un background certo.
La normativa italiana per il superamento delle barriere architettoniche e la progettazione accessibile nel 1989 introduce la terminologia di
“persone con ridotta o impedita capacità motoria o sensoriale”.
Un’accezione piuttosto ampia a cui fa riscontro l’approccio progettuale della progettazione universale.
L’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) nel 2001 utilizza il termine “disabilità” e ridefinisce il funzionamento umano e la disabilità, con una classificazione che supera i due modelli, “medico” e “sociale”, integrandoli. Da questo punto in poi
“la disabilità viene definita come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali, e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo.”
La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità nel 2006 fissa la definizione tutt’ora ufficiale utilizzando il termine “persone con disabilità”, quindi non più “disabile” ma “persona con disabilità”:
“per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri”.
Sono da considerarsi ormai superati il termine “handicap” e “handicappato” che tuttavia è tutt’oggi nel titolo di una legge vigente, la 104/92, Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.
Peraltro il termine “handicap” è stato introdotto all’inizio del Novecento in riferimento alle persone disabili, ma deriva dal linguaggio sportivo internazionale. Il termine indica infatti lo svantaggio attribuito in gara al concorrente con maggiori possibilità di successo, E’ legato ad una categoria di corse di cavalli dove i concorrenti migliori vengono caricati con un peso maggiore degli altri in modo da dare a tutti la stessa probabilità di vincere.
Da quanto sopra ritengo che l’utilizzo di altre terminologie al di fuori di quella della Convenzione ONU siano fuori luogo e, ad oggi, non ho compreso fino in fondo perché taluni utilizzino il termine di persona “diversamente abile”.
D’altro canto un’altra positiva evoluzione può essere considerata quella dell’Atto Europeo sull’Accessibilità che nel suo campo di applicazione non parla più solo di “persone con disabilità” ma di “persone con limitazioni funzionali” così definendole:
“persone con qualsiasi tipo di disabilità fisica, mentale, intellettiva o sensoriale, con limitazioni dovute all’età o ad altre cause legate a prestazioni del corpo umano, permanenti o temporanee”.
Si tratta di un nuovo modo di considerare i destinatari delle politiche per l’accessibilità, un modo più inclusivo che comprende praticamente tutti, considerando che sono contemplate anche le limitazioni temporanee.
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